venerdì 4 novembre 2016

Massimo Sirelli, quei ricordi che diventano robot

L’artista Massimo Sirelli si è inventato un mondo popolato da robot da compagnia, realizzati con pezzi da riciclo dietro ai quali si nascondono storie personali e importanti. Vere e proprie opere d’arte che non sono oggetto di compravendita, ma aspettano solo di essere adottate.
massimo sirelli
Massimo Sirelli - Foto di Francesco Gili
Diligentemente disposti su mensole, su scaffali, sul grande tavolo da lavoro in legno grezzo. Alti, bassi, grassi, magri, umanoidi o dalle sembianze animali, dal colore del metallo o colorati: sono i robot da compagnia di Massimo Sirelli, un artista calabrese impiantato a Torino, che sfugge a qualsiasi etichetta. Un po’ street artist, un po’ illustratore, un po’ padre di robot, un po’ direttore creativo della sua agenzia di comunicazione.

Tra gli argini del Po e della Dora si trova il laboratorio di Massimo. L’ordine regna sovrano e tutti gli attrezzi del mestiere sono disposti con precisione maniacale. Non solo viti, bulloni, martelli e trapani: i pezzi forti del suo arsenale creativo sono innumerevoli scatole di latta di ogni forma e colore, utensili da cucina in disuso, maniglie di finestre, rotelle di monopattini, piccoli elettrodomestici. 

Ogni pezzo racconta una storia e rappresenta un ricordo, come quella padella appartenuta a sua nonna da cui prende avvio la sua esperienza di recycling robot. Oppure come quella latta col coperchio regalatagli dalla sua ex compagna, o quella valigetta di alluminio anni ‘60 pescata da una bancarella nel Marais. La fine di una vita, di un amore, di un viaggio, lascia dietro di sé oggetti, cose di cui il più delle volte non sappiamo cosa farcene. Massimo li custodisce gelosamente, fino a quando non decide di lasciarli andare, anche per esorcizzare il dolore di una fine: questo non accade fino quando quegli oggetti non gli parlano e non si accostano spontaneamente a qualche altro pezzo. In questo modo, lentamente, comincia a prendere forma un robot, rigorosamente e interamente di metallo, senza saldature né colle. I pezzi vengono avvitati tra loro, la testa, le orecchie, il corpo, i piedi, fino a quando Massimo non è soddisfatto del risultato. Solo a quel punto sceglie un nome per la sua creatura e ne diventa il biografo. Ogni robot infatti ha una carta d’identità e un vissuto ben delineato. C’è Ettore, il cui pezzo principale è una scatoletta di tonno. Professione pescatore ma, dopo aver accusato i primi problemi di memoria, preferisce starsene tranquillo al porto ascoltando “la musica del mare, le onde sulle spiagge e i solfeggi sopra al cuore”. Oppure c’è la corpulenta balia Beth, londinese doc, discendente da una gloriosa famiglia di tate, che vanta una bis bis nonna come sorvegliante della regina in persona: nelle sue vene scorre solo tè reale, e non a caso il suo corpo è una larga latta di british tea.


A questo punto Massimo carica la loro foto e la loro storia sul sito adottaunrobot.com e attende pazientemente che qualcuno decida di prendersi cura di uno dei suoi robot da compagnia. Per averne uno non basta chiedere il prezzo, come un acquisto qualunque: bisogna far pervenire una richiesta formale a Massimo motivando le ragioni che spingono a quell’adozione, descrivendo la famiglia in cui il robot andrà ad abitare e quali cure saranno a lui riservate. 

Può sembrare tutto uno scherzo ma Massimo è serissimo. “Ho rifiutato più di un’adozione perché non mi convincevano le motivazioni. Non si tratta di una compravendita, non lo faccio per soldi è la mia arte: quindi mi possono offrire anche 1000 euro, ma se non sono sicuro i miei robot non si muovono dal laboratorio”. E probabilmente ci si potrebbe davvero aggirare intorno a quella cifra per i pezzi più grandi, visto che un robottino sui 20 centimetri di altezza vale 300 euro. Dal 5 novembre terrà una serie di workshop per bambini presso la Fondazione Prada di Milano, durante la quale costruiranno, creeranno e trasmetterà loro la sua visione delle cose: “Dirò ai bambini la verità: che questi robot sono vivi e che cercano una casa e delle persone che li amino e si prendano cura di loro. Un po’ come noi tutti!”, certo che nei bambini sia evidente quella curiosità morbosa verso un essere di metallo che ci assomiglia sensibilmente.


Il progetto di Massimo nasce dalla voglia di sperimentare, attraverso la cultura del design del riuso, una forma di creatività consapevole che mette in primo piano l’aspetto emozionale della materia. “Dopo diversi anni al servizio di agenzie e progetti di comunicazione, anche importanti, continuavo a non sentirmi appagato. Avevo come l’impressione di prostituire la mia creatività e di non impiegare il mio tempo in qualcosa di significativo per me”. Un percorso tutto personale che lo porta a insegnare allo IED dal 2008, a diventare direttore creativo di una sua agenzia, a realizzare installazioni di street art e pittoriche nei più importanti festival nazionali. Ma i robot occupano nel suo cuore un posto privilegiato, tant’è che di uno ha voluto omaggiare anche l’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano

Prima di separarsi dalla sua creatura, Massimo lucida per l’ultima volta il suo robottino e lo imballa con cura. Poi lo ripone comodamente in una scatola di cartone dal packaging ricercato, con tanto di bigliettino scritto a mano e adesivi che ne certifichino la provenienza, e infine profuma il pacco con fragranze che richiamino la storia del suo abitante.

[Articolo pubblicato nel numero #73 di novembre della rivista WU magazine]

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